CRITICHE E ARTISTI


In questa sezione sono raccolte le critiche e gli articoli da me scritti per artisti esordienti pubblicate su cataloghi, siti internet e riviste di settore.
Alcuni di essi non dispongono di un sito, di un blog o di una visibilità sul web, anche e soprattutto a loro, questo spazio è dedicato. 


0.1 Andrea Borgonovo: al di là della materia sottile

0.2 Simona Corbetta: la corporeità dell’aria

0.3 Giuseppe Giacobino: spazi indeterminati

0.4 Franco Simonelli: Golem Contemporanei

0.5 Simone Boscolo: Cronaca di un'apocalisse minore

0.6 Giuseppe Orsenigo: le alchimie del sogno

0.7 Polo Positivo: Exhibition

0.8 Massimo Sottili: Cherchez la femme

0.9 Giovanni Grassi: Antologica

Andrea Borgonovo: 
al di là della materia sottile

Trovandosi di fronte ad un’opera di Andrea Borgonovo, si entra inevitabilmente in un percorso immaginifico suggestivo e profondamente articolato. Un percorso affascinante, crogiolo di tensioni razionali ed inconsce, entro il quale contenuti di matrice filosofica (per lo più legate al misticismo cristiano) ed intuizioni istintive s’intrecciano in eleganti vie espressive che richiamano e recuperano l’esperienza delle Avanguardie italiane della seconda metà del ‘900 riferendosi in particolare all’arte povera ed all’informale materico.
Si tratta di opere spesso imponenti, che dialogano con lo spazio invadendolo, appropriandosene.
Opere in cui traspare la volontà dell’artista di ricercare una dialettica tra materia e oggetto, tra forma e luce, nel tentativo di esprimere quell’intuizione comune a tutti gli uomini, ovvero la volontà di indagare quel mistero spirituale che vi è al di là di ogni cosa. Per questo in molti lavori di Borgonovo troviamo una luce oltre l’istallazione, il cui corpo, sottile ed immateriale, etereo come lo spirito, ci giunge filtrando attraverso la matericità di oggetti solidi scivolando tra i solchi di corrosione impressi su di essi dagli acidi. La materia solida tuttavia è sottile e spesso ottenuta ripiegando su sé stessi fogli di plastica ed ogni volta trattando su di essi resine ed acidi, operazione che ricorda le innumerevoli distillazioni del processo alchemico volte a disciplinare lo spirito dell’alchimista, o il lungo lavoro di ripiegamento e ribattitura dell’acciaio delle spade da samurai degli antichi fabbri giapponesi che dopo migliaia di “ripiegamenti” ottenevano una lama d’acciaio sottilissima ed affilatissima. La “materia sottile” dunque, disciplina lo spirito dell’artista tramite la sua stessa creazione, e non solo, sotteso a questo vi è l’intuizione dell’artista per cui la materia solida dell’opera è sottile quanto la materia stessa del mondo in cui viviamo se concepita come sorta di “sipario” di “velo di Maya” oltre il quale vi è la forza divina, espressiva, primordiale ed immanente dello spirito e dell’anima. Secondo questa lettura, solo pochi millimetri di “materia reale” ci dividerebbero dal mistero di ciò che è sovrannaturale del quale oggi possiamo cogliere delle tracce solamente attraverso piccoli solchi, piccoli spiragli di luce.
E proprio di tracce e di memoria è necessario argomentare quando si parla dell’opera complessiva di Borgonovo. Di fantasmi, di poltergeist, riscoperti recuperando materiali in cui vi è una traccia del passato che stimola quell’interrogarsi sul mistero della vita e della morte. L’utilizzo di Borgonovo di negativi fotografici, persi in un mare astratto di materie corrose, ne è uno degli esempi più diretti. La fotografia ha già in sé il valore di “documento”, di testimonianza, di una traccia della memoria. Più ancora, il negativo è la matrice di quel documento, di quella testimonianza della memoria. Tuttavia il negativo fotografico è confuso, lontano, spesso raffigura immagini senza riferimenti precisi. Ma è proprio questo che rende tali oggetti simboli nei quali ognuno può ricercare il proprio vissuto. Leggendoli sotto la chiave di lettura del rapporto materia-spirito che è presente in Borgonovo, questi negativi divengono i simboli di una memoria illuminata dallo spirito, confusa dal limite del nostro essere di carne, di avere una memoria subordinata al numero di neuroni adibiti all’archiviazione dei ricordi.
Guardando alcune delle opere di Borgonovo al buio, illuminate dalle sole lampade che le compongono, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una mappa stellare. Molte delle stelle che vediamo sono scomparse migliaia di anni fa e le luci che vediamo oggi non sono altro che delle tracce. In questo senso, è dunque forse solamente nel passato che si può ricercare quel mistero divino, quel lato spirituale che permea anche il presente. Come gli astrofisici che interrogano la natura delle particelle e degli astri per scoprire i misteri del tempo e della nascita dell’universo, così, percorrendo la nostra memoria a ritroso, in una sorta di “ritorno all’Eden” (poiché ogni uomo è fatto della stessa materia che è venuta in essere nella singolarità del Big-Bang) forse potremo riuscire ad intravedere un bagliore di quel “Primum Mobile” che è all’origine di tutto, di quell’”amor che move il sole e l’altre stelle” di cui cantava Dante.
Nota critica di Davide Corsetti (luglio 2008)
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Simona Corbetta: la corporeità dell’aria
Simona Corbetta è una giovane artista il cui linguaggio è legato ad un affascinante mondo materico. La sua familiarità con le avanguardie artistiche della seconda metà del '900 ed in particolare ad Alberto Burri è chiara ed inoppugnabile, ma se Prometeo ci ha aperto la via del fuoco dandoci la possibilità di giungere alle moderne tecnologie, così Simona Corbetta ha deciso di raccogliere l'esperienza di Burri per incamminarsi ed identificarsi attraverso una ricerca autonoma e personale, che in alcuni casi sfiora idealmente la street art.
Simona Corbetta "Maternità 2" Particolare
Plexiglas, combustione, tagli, applicazioni di metallo, sabbie, pietre. Queste le materie. Steli, totem, lastre. Queste le loro espressioni nello spazio. La prima cosa che si può leggere trovandosi di fronte ad una scultura di Corbetta è la trasparenza del supporto contrapposta alla forma visibile ed opaca creata dal taglio, dalla sabbia, o ancor più dall'applicazione del metallo, delle pietre o dalla combustione. È come se l'artista avesse deciso di plasmare le sue forme nell'aria.
Simona Corbetta "Ricchezza"
Ci troviamo quindi in una suggestiva varietà di significanti ai quali trovare nomi e significati: pietre appoggiate nelle pieghe delle combustioni di un ipotetico albero d'aria, sospese in una sorta di assenza di gravità; delicati vortici che sollevano in alto sabbia e piccole bolle; combustioni che richiamano quell'effetto ottico chiamato “Fata Morgana”; fusioni annerite e ribollenti che si ripiegano creando plastiche forme ritorte e sgocciolanti. Secondo questa chiave di lettura, basata su di una “poetica dell’aria”, nelle ultime opere si può intravedere una forte contemporaneità, un discorso oggi come oggi, più che mai attuale. Come nell’opera, la plastica viene bucata dalle fiamme e cola annerita dalla combustione, così l’aria della nostra atmosfera, l’aria che non vediamo, che ci appare limpida, viene svelata dalla fiamma dell’artista come composta di grevi sostanze, divenendo bitumosa e torbida.
Simona Corbetta "Energia"
Non a caso il materiale combusto è plexiglas, cioè plastica, un derivato del petrolio. In alcuni casi, nel buco vuoto lasciato dalla plastica, Corbetta aggiunge delle griglie metalliche, leggere e “traspiranti”, quasi a scoprire che al di sotto dell’aria nera prodotta dalla combustione degli idrocarburi, stiano sospese altre sostanze metalliche (come ad esempio le polveri sottili). Se viste sotto questo aspetto, le ultime opere di Corbetta potrebbero risultare drammatiche e impressionanti. Ma non è così. Le opere di Corbetta, sono forme affascinanti, delicate e suggestive. E questo perché sono le forme del mondo in cui viviamo, create dai materiali che ci circondano e dai simboli del nostro tempo. Ed infatti, accanto a questi ultimi lavori vi sono anche i lavori leggeri, in cui sono presenti elementi naturali, che fortunatamente ancora esistono anche nel mondo di oggi. 
Non dobbiamo però essere tratti in inganno da speculazioni sui significati di queste opere:  quella di Corbetta non è una critica alla società o un discorso ambientalista, ma una semplice espressione dell’essere e del vivere contemporaneo. Simona Corbetta è una figlia del suo tempo, una creatura generata dal mondo di oggi che utilizza un linguaggio strettamente connesso a questo mondo. Per questo inevitabilmente si trova più vicino agli street artist (i quali utilizzano spesso materie ed oggetti “strappati” alla strada, come catrame e cemento) che non a Burri.
Simona Corbetta "Guardare"
Forse è proprio questo il fascino delle opere di Simona Corbetta. Natura, artificialità, umanità si uniscono per creare simulacri, “golem”, “avatar”, di espressioni intime e poetiche. Giungendo a noi, queste forme ci toccano, e guidandoci attraverso la consapevolezza della materia del mondo in cui viviamo e della materia di cui siamo fatti, ci danno l’occasione di riscoprire che vi è una “sostanza umana” immanente e trascendente, che permea e pervade in ogni cosa.E quest’idea è vieppiù rafforzata osservando le opere intitolate “maternità” nelle quali è profondamente impressa quella traccia “postumana” che tuttavia in Corbetta non ci rappresenta più come “organismi cibernetici”, ma come esseri composti di plastica e metallo allo stato grezzo, espressivi, pulsanti, riflessivi. Nulla di spaventoso. Anzi, molto spesso aggraziato, gradevole, leggero, intimo.
Nota Critica di Davide Corsetti (luglio 2008)
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Giuseppe Giacobino: spazi indeterminati
Giuseppe Giacobino è un artista napoletano. Questo è importante, sebbene da anni ormai viva e lavori a Milano, il suo “animo napoletano”, con la sua storia, la sua poesia, l’estetica tragicomica e buffonesca ed al tempo stesso di profonda riflessione intellettuale ed esistenziale, ed in definitiva quel modo di “sentire e di vivere” che è proprio degli abitanti di quella città unica e contraddittoria che è Napoli, hanno impresso quelle peculiarità che tuttora caratterizzano sia l’artista che l’uomo.
Giacobino, lineamacchialettera, 50x60cm, 2008
Nelle opere più recenti di Giacobino, queste tensioni della “napoletanità”, questi contrasti tra leggerezza e serietà, tra speculazioni intellettuali rigorose e l’estetica della poesia e della gradevolezza, intese e vissute in modo quasi estatico, sono ingredienti visibili ma non espliciti, pulsioni espresse in un delicato ed elegante rapporto intimo e minimale.
Linea, forme astratte, campiture di colore e fanciullesche lettere calligrafiche incise nel legno. Di questo si compongono. Colori primari, spesso. Segno infantile, deciso ed inciso. Forme i cui percorsi intellettuali rimandano alla pop-art, all’arte concettuale, al Dada, alle teorie dell’astrattismo e ad artisti come Kandinskij, Klee, Santomaso. Percorsi estatici ritrovati nel ritorno alla sintesi poetica, nel minimale spazio dell’infanzia.
Giacobino, lineamacchialettera, 100x90cm, 2008
Ma Giacobino non è solo “Napoli” e Giacobino non è solo un epigono dei suoi ispiratori. La sua direzione è altra ed il suo pensiero e la sua ricerca, indubbiamente autonomi e personali.
Linee e forme invadono il campo dell’immagine affacciandosi con eloquente leggerezza nella composizione, lasciando intendere che la loro origine se ne trovi al di fuori, in quello spazio virtuale ipoteticamente infinito che è materia del concetto. Si tratta di dimensioni matematiche irreali, di quegli spazi logici ed indeterminati dei “quanti” fisici.
Oltre a questo, vi è poi la dimensione poetica, estatica, ludica. Osservando quelle lettere sospese, quei solchi lineari (a volte persino “tagli”) interrotti dallo spazio della composizione, quelle “balene” di campiture rosse, gialle, blu, delle quali ci viene presentata solo una parte, ci perdiamo nel mondo semplice ed immaginifico dei bimbi che siamo stati, in quella fanciullezza che idealizza forme e contenuti, semplificandoli ed iperbolizzandoli. Ci ritroviamo a dimenticare le dimensioni dello spazio e del tempo, a concepire distanze finite come infinite. Non è difficile pensare a queste opere come una sorta di gioco dell’esistenza, di un “Isola Che Non C’è”, rifugio e tempio della giovinezza e dell’indeterminazione, dove la parola “impossibile” non è contemplata, dove il tempo è relativo e subordinato alla voglia di dedicare attenzione ad una qual cosa, dove ognuno può ritrovare regole, tempi e luoghi propri, le proprie prospettive ed i propri ideali confini.
Giacobino, lineamacchialettera, 80x60cm, 2008
Sotto questa chiave di lettura, nelle opere di Giacobino la composizione segue l’idea di definirsi tentando di realizzare una sorta di istantanea di uno stato dell’essere “in sospensione”, di una visualizzazione del “Das Ereignis” Heideggeriano, dal quale s’intravede l’articolarsi ipotetico di un’infinita distribuzione di possibilità che ricorda la distribuzione delle probabilità dei modelli quadri della meccanica quantistica. 
Ci si può chiedere quindi se Giacobino, giocando a fermare ed a ripiegare lo spaziotempo speculando sull’interspazio, ossia sul vuoto tra le distanze fisiche, serendipicamente non ritrovi e ci accompagni in quel luogo dove le dimensioni del mondo sono intimamente legate alla statura dell’animo umano.

Giuseppe Giacobino: Kōan
Con le sue nuove opere, Giacobino ci presenta una delle possibili direzioni della sua ricerca artistica, esplorando le pieghe di quegli “spazi indeterminati” che si delineano nelle sue composizioni. Questo nuovo ciclo di opere infatti, si inoltra, forse ancor più dei precedenti, in quel “gioco dell’esistenza” elegante e poetico, questa volta facendosi contemplativo, raffinandosi, assottigliandosi, in modo da esprimersi ed imporsi con la ieratica incisività di parole sussurrate.
Poesia silenziosa. Colore ed incolore. Ombre portate e trasparenza. Echi di percorsi intellettuali che in queste opere rimandano alla Pittura Analitica, all’Arte Concettuale, all’Astrattismo, all’Arte Minimale. Rifiutando, in modo simile a Kelly Ellsworth, distinzioni tra pittura e scultura; abbracciando, in un istinto simile a Cézanne e Yves Klein, la forza espressiva e meditativa del colore; racchiudendo, in una scatola alla Cornell, un elegante mondo espressivo intimo e minimale. Tuttavia non vi è nulla, nelle intenzioni dell’artista di voler in qualche modo interloquire con l’Arte Minimale o l’Arte Concettuale. Quello che ci vuol dire è che non importa il senso dell’opera. Non vi sono significati cerebrali o rimandi a nulla se non ciò che compone l’opera. Importa l’esistere. Importa l’azione dialettica tra il fruitore e l’opera senza che vi sia un’ermeneutica di essa. Importa ciò che, meditando di fronte ad un’opera, si scopre di sé, e non ciò che si scopre dell’opera. A questo ora Giacobino, nel suo “gioco dell’esistenza”, ci pone di fronte. La ricerca di un segreto che ci sfuggirà sempre fino a quando non lo accetteremo per ciò che è: un mistero.
Giacobino, Koan (dittico), cm 50x50, 2008
E come un mistero non va interpretato o capito, ma contemplato ed assaporato nella sua profonda incomprensibilità ed indeterminazione. Come avviene appunto nella lettura di un Kōan, uno dei dilemmi del buddismo Ch’an e dello Zen, in cui non vi è risposta. Poiché la risposta non è importante. Poiché nel cercare di trovare un senso ad una domanda senza senso, ciò che è importante si ritrova nel recupero del nostro essere bambini, della nostra genuina libertà di stupirci, di meravigliarci di fronte al “nonsenso”; di pensare all’Isola Che Non C’è e sorridere ed accettare la sua indeterminazione; di immaginarsi il suono che può fare il battito di mani di una mano sola e stupirsi di fronte al solo fatto di avervi pensato.
Note Critiche ed articoli di Davide Corsetti (luglio 2008 e ottobre 2009)
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Franco Simonelli: Golem contemporanei
Franco Simonelli è un artista maturo in continua ricerca ed evoluzione. La sua prima produzione infatti risale agli anni 60, durante i quali partecipa al fermento artistico emiliano, dopodiché ha un periodo di quiete apparente, per riprendere poi a dipingere nel periodo della maturità. Come molti pittori che riprendono la ricerca nella seconda metà della loro vita, Simonelli ci racconta e si racconta attraverso i sedimenti delle esperienze di una vita, ma a differenza di molti altri artisti suoi coetanei, lo fa con la freschezza e l’entusiasmo di un giovane artista. Le sue tele infatti sono dinamiche, dirompenti, in movimento continuo. Il suo occhio si meraviglia, si entusiasma, si diverte, convogliando, mescolando, e scomponendo un naturalismo figurativo dal taglio fresco e deciso, in un inaspettato mondo pervaso da variopinte e guizzanti forme astratte.
Nelle sue opere si possono ritrovare echi di artisti come Cézanne, Sérusier, Franz Mark, così come il loro dinamismo ricorda in qualche modo i futuristi Balla e Carrà, tuttavia qualcosa, nello stile, nel tratto, nella stesura del colore e nelle soluzioni formali che Simonelli ritrova negli ultimi lavori, può per certi versi essere considerato come parte dell’eredità ricevuta dalla grafica pubblicitaria nel trentennio intercorso tra gli anni settanta ed il 2000. In quegli anni infatti, Simonelli non ha lasciato i pennelli a prender polvere, ma ha continuato a vivere in un mondo d’immagini e colori operando come creativo, illustratore ed art director, quindi crescendo, come è logico supporre, seguendo e vivendo il multiforme linguaggio della moderna comunicazione visiva. Questo ben si nota dalla stilizzazione delle forme, dalla scelta dei colori e dalla freschezza del segno pittorico, che rimandano al “rough” (lo schizzo), all’ “inspiration sketch” (la bozza d’ispirazione), al “finish layout” (l’illustrazione di presentazione al cliente); queste ultime, tutte composizioni fresche e veloci ma che tuttavia richiedono, attraverso la visualizzazione di pochi elementi, una forte e condivisa comunicazione dell’atmosfera, del concetto, dell’emozione e dell’idea che vi è dietro una proposta pubblicitaria. Per questo forse, le opere di Simonelli appaiono così contemporanee. 
Assieme allo stile ed al gusto pittorico di Cézanne, Sérusier, Franz Mark, Balla e Carrà, nei suoi tratti s’intravede il sapore dell’illustrazione, del cartoon, del graffito e delle “tag” metropolitane; il tutto sintetizzato, metabolizzato e rielaborato nello stile di un artista che ha vissuto gli ultimi decenni dell’affresco di questi nostri tempi e che è stato allo stesso tempo vittima e protagonista dei loro influssi stilistici. Ma Simonelli non è solo questo. Simonelli non è un grafico pubblicitario che si è messo a fare il pittore. Franco Simonelli è un artista che, per un periodo della sua vita, ha prestato il suo talento alla comunicazione visiva. Le sue opere non sono e non vogliono essere solamente echi della società contemporanea o compiaciuta ricerca stilistica e formale.
La sua natura d’artista va ben oltre. Vi è uno sguardo particolare, una gioia ed una meraviglia della semplicità, una forza dinamica di speranza nel futuro, una riscoperta dei colori accesi della leggerezza e del sorriso anche di fronte agli angoli bui dei luoghi del mondo. Niente di più lontano dal semplice naturalismo o dalla bellezza decorativa. Niente di più lontano dalla “superficie” quindi, ma sicuramente di molto vicino ad una serena coscienza dell’ordine d’importanza delle cose. Quella gerarchia che consente di riconoscere ciò a cui dare peso e ciò a cui invece non è necessario dare peso. Una sorta di serena fatalità, di libero e genuino sguardo sul mondo.
Tutto questo espresso e raccontato attraverso immagini dotate di una forte consapevolezza compositiva che rifugge il riposo e l’elucubrazione abbracciando una sorta di fresca “istantanea” pittorica, di rapida e decisa rappresentazione di un ricordo, di un evento o di un’idea. Anche laddove l’impronta pare meditata e riflessiva, la composizione si muove, brulicando di vita. Il riposo, la meditazione, l’indagine esistenziale, impressi e comunicati con vivida forza nelle opere di Simonelli, sono avvenute prima del gesto pittorico, il quale sembra averne tratto spunto ed energia per disegnarsi sulla tela nel ritmo di un istante. È come se, tutte le emozioni, i concetti e le idee si fossero compressi per poi esplodere sulla tela in un improvviso raptus creativo.
Questa tensione è il movimento, il rinnovamento, il futuro: la gioia di riscoprire un mondo nuovo fatto di sogni piccoli e grandi. Di questo si tratta. Di sogni piccoli e grandi. Passando in rassegna i cicli delle opere di Simonelli infatti, si ritrovano vedute di città ed isole accanto a ritratti di cespugli autunnali; delicate e minute composizioni ispirate dalle poesie di Pessoa accanto alle narrazioni mitiche di Dedalo ed Icaro ed al recente ciclo sulla leggenda del “Golem” (quest’ultima riproposta in chiave moderna high-tech il cui gusto estetico mischia tratti da writer, allo stile dei nabis, ed a sensazioni futuriste); micromondi accanto a macromondi, entro ognuno dei quali la sensibilità di Simonelli ci rivela, con lo sguardo della sua pittura, l’ampio orizzonte, consentendoci di assaporarne la vitale profondità.
Nota Critica di Davide Corsetti (marzo 2009)
Per approfondimenti sull'artista: www.francosimonelli.it/ 
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Simone Boscolo:
cronaca di un'apocalisse minore
[...] Nelle opere di Boscolo infatti soggiace quel significato altro proprio delle opere d’arte percepito attraverso efficaci figure simboliche che dialogano tra loro integrandosi alla fotografia, alla parola scritta, al segno ed al di-segno.
Boscolo, La famiglia Deluca di Vigo di Fassa,120x90cm, t.m. su forex, 2007
Parole, immagini, pittura, fotografia. Rielaborazioni ed interpretazioni che si rinnovano recuperando l’antico per ricondurlo a noi senza giudicarlo, senza criticarlo se non con il solo atto di ricontestualizzarlo all’interno della vasta parata delle immagini del mondo moderno. Per questo, in quest’assenza di giudizio verso un mondo che proviene dal passato, la critica sta proprio nella sua stessa negazione. Nello stesso rifiuto della nostalgia, del voler riproporre il passato come esempio da seguire o come monito da dover considerare. In questi nostri tempi, dove l’immagine è utilizzata massicciamente come principale mezzo di comunicazione, Boscolo pone ed affianca al bombardamento visivo a cui ci siamo abituati, la traccia silenziosa di un passato estinto.
Boscolo, La famiglia Miotti, Caspoggio 1915, t.m. su forex, cm 100x70, 2009
Sotto questi rispetti, attraverso le più recenti opere di Boscolo veniamo trascinati in una suggestiva parata di fantasmi, in un reportage di un mondo di memorie estinte, la cui traccia è visibile quasi solamente nei musei etnografici o nelle collezioni di qualche appassionato di cultura contadina. Sì perché di questo si tratta. Quella di Boscolo non è la cronaca della fine della società, le memorie che richiama non sono gli aulici resti delle grandiose civiltà antiche. Quella di Boscolo è la cronaca di un’apocalisse minore. “Minore” perché tratta la scomparsa di una cultura “piccola” come quella contadina dei nostri monti della quale, come è accaduto per molte altre piccole realtà culturali del nostro passato ormai scomparse, non abbiamo più bisogno. E la racconta come la cronaca di un crudo fatto. Un fatto incontrovertibile come lo scorrere del tempo.
Quel che ci dice è che è esistita, ma che non appartiene e non vuole appartenere più al nostro tempo. Che la stiamo dimenticando proprio perché consci del fatto che non potrà più tornare nel modo in cui è esistita.  Panta rei. La legge del “Divenire”.  Questo è ciò che si può intelleggere nella parata di frasi scritte, volti, personaggi ed atteggiamenti coperti dalla pittura, scrostati e nuovamente coperti. Cercare di riportare all’oggi quel che è stato ieri vorrebbe dire creare una brutta copia. Falsa e nostalgica. E questo, secondo le sue stesse parole, non è nelle intenzioni di Boscolo. Neppure di quel Boscolo amante di quella cultura, di quei linguaggi, di quel modo di sentire. Per questo forse, operazione vieppiù sofferta e metabolizzata. Ed in questo senso è mio parere che inevitabilmente, di “Eracliteo” in Boscolo non si ritrovi solo il “Divenire”, ma anche quel “Polemòs” scaturito dalla guerra tra gli opposti: la scrittura e la cancellazione, ciò che si ricorda al solo scopo di dimenticarsene.
Boscolo, La cura della salma nella Contea di Bormio, t.m. su forex, cm 100x70, 2009
È indubbio infatti che lo stesso atto di recupero e di esposizione sia già di per sé un atto d’interesse verso quel mondo scomparso. E questo è ben raccontato dal modo in cui nascono le opere di Boscolo. La ricerca minuziosa, la perizia della rielaborazione della base fotografica vengono quasi annullate dalla successiva cancellazione. In alcuni casi, le opere di Boscolo vengono talmente ricoperte e scrostate da divenire quasi astratte. Qualche volta divengono solo ombre, fantasmi. In altre invece, diventano vere e proprie nuove forme astratte, nate dalla distruzione delle forme precedenti. Un’operazione che richiama alla mente il processo creativo-conservativo-distruttivo della trimurti indù che rappresenta il ciclo naturale dell’ordine delle cose. Si percepisce così un’altra delle possibili chiavi di lettura della ricerca di Boscolo e che ne conferisce un’importanza condivisa unendo il microcosmo contadino al macrocosmo del mondo, ovvero l’armonia che vi è dietro la guerra dei contrari attraverso i quali, Boscolo come Eraclito, ci accompagna al cospetto di quel Logos, di quella legge naturale che crea e rinnova ogni cosa.
Nota Critica di Davide Corsetti (luglio 2008)
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Giuseppe Orsenigo: le alchimie del sogno
Giuseppe Orsenigo è un maturo artista di grande esperienza tecnica e pittorica le cui opere, surreali ed espressive, ci invitano ad entrare in un suggestivo ed articolato mondo immaginifico che si pone in quella terra di confine tra sogno e realtà. 
Sebbene la data della sua prima mostra sia relativamente recente, le origini della sua ricerca artistica risalgono agli anni 60’ seguendo da allora lunghi anni di segreto lavoro segnato da profonda dedizione e da grande fermento creativo.
Impegnato con successo nel settore del design e nella progettazione di elementi d’arredo, Giuseppe Orsenigo ha scelto di operare la sua ricerca artistica parallelamente al suo lavoro, cercando attraverso di essa di leggersi e di misurarsi con sé stesso e con il suo vissuto prendendo necessariamente le distanze da tutto ciò che poteva distrarlo da questa sua determinazione, confrontandosi in una battaglia che sapeva non avrebbe potuto combattere alla luce, ma solamente immergendosi ed esplorando, in questo suo “lungo viaggio lontano dal mondo”, quei luoghi nascosti in cui si trovano le più profonde ragioni dell’uomo.
Ed è di questo viaggio che raccontano le opere di Orsenigo che, in modo simile ad un alchimista contemporaneo, sembra aver seguito la strada di quella via della ricerca ermetica ed alchemica espressa nell’acrostico “VITRIOL”, ovvero “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem” che esorta alla conoscenza di sé attraverso “l’esplorazione del proprio io più profondo, passando attraverso gli stadi della comprensione dei propri limiti e delle proprie facoltà in relazione al proprio vissuto ed al mondo che lo circonda, così da scoprire in sé quella “pietra occulta” o “pietra filosofale” simbolo della consapevolezza della vera natura del proprio essere e sentire. 
Un viaggio nell’inconscio quindi, costellato di desideri e speranze, di esperienze di vita e di realtà solamente sognate, di riflessi di mondo e di echi di ciò che vi si trova oltre; un viaggio ricco di battaglie, spesso aspre e difficili, combattute tra ciò che è “in sé” e ciò che è “altro da sé”. Un viaggio al quale Orsenigo, con la suggestiva elaborazione delle sue opere, ci chiama a partecipare, giocando a riconoscere ciò che di esse ci coinvolge e ci definisce, ponendoci di fronte ai nostri stessi desideri ed alla misura dei nostri sogni.
Da abilissimo artigiano, da “maestro del fare e del comporre”, ha attinto dai molteplici strumenti tecnici e pittorici in suo possesso per raccontarsi e raccontare questo suo viaggio attraverso i luoghi dei sogni e dell’inconscio, in una suggestiva danza tra figura ed astrazione, tra materia e pittura, tra disegno e oggetto, tra profondità pittorica e volume reale. Le sue opere infatti si esprimono per mezzo di una multiforme varietà di materiali e di tecniche sovrapposti che si contaminano, cancellandosi e ridefinendosi, contrapponendosi e mescolandosi, in un perpetuo moto di generazione e trasformazione, di occultamento e rivelazione. Dal legno al vetro, dal metallo alla pittura, dal collage alla tela, i materiali del sogno prendono forma invadendo ed eludendo lo spazio reale con le trasparenze del vetro e dei colori, con le estroflessioni delle lastre di metallo, con le incisioni delle superfici lignee e dei solchi nella pittura.
Composizioni che, sebbene frutto di violenti contrasti tra ragione e sentimento, ritrovano armonia ed eleganza nel proporsi e disporsi nella loro forma compiuta, rivelando al di là del conflitto interiore che le ha generate, una profonda e viva speranza, testimonianza della bellezza che si cela in chi, incurante di ciò che potrà incontrarvi, ha percorso queste difficili vie alla ricerca di sé. Così come recita la frase riportata da un anonimo su un’edizione del trattato alchemico Currus Triumphalis Antimonii: “Chi sa non può, chi vuol non ha, e chi né vuol né sa, tutt’ha e può” con accanto la nota "Vero proverbio per chi non è chimico sofista ma vero".
Nota Critica di Davide Corsetti (settembre 2009)
Per approfondimenti sull'artista: www.giuseppeorsenigo.it/opere
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Polo Positivo: Exhibition
Il gruppo Polo Positivo formato dai giovani artisti d’area comasca Simona Corbetta, Paolo Negretti ed Elena Redaelli presenta per la prima volta le sue eleganti e suggestive opere polimateriche a sei mani in una sorta di manifesto del lavoro di ricerca e della direzione di questa neonata e riuscita partnership.
Ispirate a generi o a brani musicali le opere del polo positivo si pongono di fronte all’espressione artistica con una decisa volontà di esprimere una sorta di inno all’emozione ed alla “positività” nei confronti dell’atto artistico e creativo. 
La tematica ispiratrice e lo spunto di queste opere possono in qualche modo richiamare l’idea Kandinskijana di elaborazione dell’opera su di uno spunto musicale benché si distacchino decisamente dall’aspetto espressivo e dal percorso intellettuale del maestro russo, in favore di una ricerca autonoma orientata verso la poetica della materia.
Se infatti il tema può avere reminiscenze Kandinskijane, la resa formale e l’aspetto morfologico dei lavori tendono invece ad esprimersi attraverso il linguaggio dell’Informale (con chiari riferimenti a Burri in particolare), componendosi di materie extrapittoriche che a loro volta, con il loro stesso ingombro, determinano la superficie e la struttura delle opere. Sotto questi rispetti, è interessante osservare il processo di elaborazione e di composizione di questi lavori da parte di ognuno dei tre protagonisti della loro creazione, un processo che viene messo in opera in modo simile a quello botteghe degli artisti medioevali, e cioè con un apporto di competenze ed elementi diversi che si stratificano l’uno sull’altro completandosi a vicenda.
In questo senso ogni lavoro si compone di un supporto in plexiglas modellato tramite combustione ed elaborato con elementi metallici, sabbie o elementi minerali da Corbetta; sul quale in un secondo momento, Negretti interviene applicando i numerosi strati dei suoi veli di pellicola plastificata, aggiungendo all’opera la profondità e le suggestive variazioni della sua tavolozza cromatica; per giungere infine all’espressiva forma tridimensionale e spesso aggettante degl’intrecci e dei fili di Redaelli che completano la composizione facendo scaturire dai delicati suggerimenti delle materie dei primi due un segno deciso e delineato che, dando corpo a guizzanti assoli, aumenta l’intensità di queste emozionanti sinfonie di viva materia.
Articolo/Nota Critica di Davide Corsetti (giugno 2009)
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Massimo Sottili: Cherchez la femme
La mostra presenta una quindicina di opere di grandi dimensioni di elegante sapore neoclassico che ricorda in qualche modo il David de “la morte di Marat” e del ritratto di “Madame Récamier”. Attraverso i suoi lavori, Sottili ci invita a seguirlo in una sorta di personale "Odissea Pop" alla ricerca della pura ed ideale estetica della femminilità, indagando quel mondo sensuale e misterioso morbidamente impresso sulle labbra, sulla pelle e nello sguardo di ogni donna.
È questo infatti il soggetto: “cherchez la femme” ovvero “cerca la donna”. “Cercare” e non “trovare”, poiché quella di Sottili è la ricerca della “donna ideale”. Questa idealizzazione tuttavia non è solamente un’elegia della bellezza fisica, ma un tentativo di cogliere la pura estetica della femminilità. Questo è suggerito anche nel metodo di lavoro di Sottili. Egli infatti, scegliendo i soggetti delle sue opere tra le foto pubblicitarie delle riviste - solitamente modelle sconosciute, utilizzate come “mezzi” per vendere un prodotto - e ponendole in un nuovo, indefinito e dedicato spazio, simile ad una sorta di “iperuranio pittorico” entro il quale nulla disturba, contamina o mette in secondo piano la loro natura di donne, compie un atto di recupero e rivalutazione, eleggendo ognuna di esse al ruolo di protagonista in quanto “emanazione reale” della “donna ideale”.
Operazione vagamente “pop”, che ricorda artisti come Warhol e LaChapelle, dai quali Sottili è stato indubbiamente influenzato. Lo sguardo di Massimo Sottili quindi è proteso, come dicevo, alla rivalutazione dell’elemento donna, il cui ruolo seduttivo, profondamente legato all’eros ed al mistero della vita, forse oggi è stato eccessivamente asservito al ruolo di “strumento” utile ad altri scopi.
Ma oltre alla rivalutazione c’è la ricerca. L’inseguimento dell’archetipo platonico di femminilità frammentato nella creazione, presente e purtuttavia nascosto in ogni donna reale. Ed è appunto questo, a mio parere, che rende l’anelito alla ricerca di quello sfuggente ideale di femminilità dovuto, seppur in qualche modo vano. Poiché è tensione ad esplorare quel mistero che ci affascina e ci seduce, che ci coinvolge e ci uccide, che ci rende genitori e figli. Che siamo uomini o donne non è importante poiché questo mistero della vita che porta con sé rende la donna un mistero anche per sé stessa. E così, è inevitabile che il nostro cercare, trovando i frammenti dell’ideale nella realtà e di realtà nell’ideale, non possa essere che una ricerca al contempo finita ed infinita, sfuggente e fruttuosa, illusoria ed allo stesso modo, profondamente reale.
Articolo/nota critica di Davide Corsetti 2008
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Giovanni Grassi: Mostra Antologica
La mostra presenta un’antologia del percorso artistico di Giovanni Grassi, che si snoda tra sintesi ed espressione, tra rigore concettuale ed istinto emotivo. Il tutto effettuato in anni di consapevole studio dei grandi maestri e di attenta ricerca di soluzioni personali.

Un inseguimento quindi, un continuo porsi in critica ed in contraddizione. Una continua ricerca di trovare una via tra le vie, un approdo sensibile e consono a sé stessi ed al linguaggio universale, coscienti del fatto che, prima o poi, si dovrà necessariamente levare l’ancora per cercare un approdo nuovo. Osservando la produzione di Grassi infatti, ci troviamo di fronte ad un percorso che si svolge per mezzo di intuizioni e soluzioni formali apparentemente eterogenee ed inconciliabili: opere pittorico-scultoree su formato quadrato che in qualche modo richiamano, per identità e concetto, l’Hard Edge Abstraction; accanto ad esse, le opere sullo “scoglio bretone” il cui contorno, tagliato in positivo e negativo su lastre di metallo, suggerisce speculazioni sulla memoria e la sua mutabilità, indagando sul valore del pieno e del vuoto, di colore e non-colore, di interno ed esterno; ed ancora, il ciclo di opere pittoriche naturalistiche che ripercorrono, studiano, metabolizzano e rielaborano i paesaggi di Gauguin, la pennellata pastosa di Van Gogh, la selvatica sensibilità cromatica dei “fauves”, fino a raggiungere la sintesi in un’interpretazione vicina all’astrattismo cromatico-materico di Chighine; ed infine le ultime campiture, i monocromi che si appoggiano a Rothko per poi allontanarvisi, sino a raggiungere un personale stadio di sintesi espressiva ed emozionale.

Partendo dalle opere di Grassi sui quadrati, nelle quali, oltre al richiamo dello studio di Malevic su tale formato, personalmente ravviso una vicinanza intellettuale all’Hard Edge Abstraction americana degli anni ‘60, vicinanza che si estrinseca nell’idea per la quale concetto e tecnica debbano coincidere, in modo che l’opera sia “espressione di sé stessa” nel senso più puro del termine, e che quindi debba essere considerata per il suo valore oggettivo, realizzandosi nel suo stesso “esistere”. Secondo questi rispetti, l’opera vive senza essere limitata allo spazio del quadro poiché ogni suo elemento e l’intera composizione “è” il quadro, e che dunque si debba considerare attraverso l’insieme di tutti gli elementi che la compongono, sia cromatici che materici che volumetrici. 
Le soluzioni formali di Grassi naturalmente sono diverse dagli artisti Hard Edge, ed includono, nell’aspetto formale, un dialogo tra colore e materiali di recupero, trasformati a loro volta in ideali campiture cromatiche. Questa impostazione dialettica tra oggetto-colore-espressione si può cercare di ritrovare nelle vedute di Grassi, quelle in cui egli volge lo sguardo indietro, ai maestri del colore, da Van Gogh a Gauguin, ai fauves, per giungere, sulle orme di Rothko, al valore assoluto della sintesi cromatica-formale. Se il suo utilizzo delle campiture e del gesto impresso dalle pennellate “pastose” possono ricordare Van Gogh ed il naturalismo astratto di Chighine, le ultime opere monocromatiche possono essere in qualche modo considerate una personale chiave interpretativa, un ponte, tra l’assoluto valore cromatico inteso in senso quasi “ontologico” del colore, e l’espressività soggettiva del gesto che rende la pittura materia autoreferente, espressione di sé stessa, trasformandola in “materia-colore”.
L'articolo della mostra antologica di Giovanni Grassi pubblicato sulla rivista OK Arte di Milano
Dunque il colore parla di sé attraverso di sé, con il proprio pigmento, con il suo stesso esistere, entro il quale, il gesto, la pennellata, ottenute dall’artista per mezzo del sommovimento dello stesso pigmento monocromo, creano la materia dell’uomo, l’interpretazione, generando il chiaroscuro ideale in questa logica di purezza cromatica, poiché ottenuto, non da artifici pittorici, bensì dall’interazione tra la materia mossa e la radiazione luminosa.
Così Grassi ci presenta lo stadio più avanzato della sua ricerca in questa direzione, in cui sintesi ed istinto espressivo, smettendo di rincorrersi, si raggiungono, mostrandoci in una parola, ciò che secondo Grassi vi è al principio dell’espressione vissuta e rappresentata: il Colore.
Nota critica e articolo di Davide Corsetti



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